Silvia Malfitano

Silvia, vincitrice 2015

Tutto è iniziato 23 anni fa. I primi mal di pancia, le prime febbri e le continue visite al bagno. Avevo 4 anni e piano piano il mio fisico si debilitava. I vari ricoveri sono stati inutili, in quanto la diagnosi dei medici era sempre la stessa: colon irritabile. Lo stare male, però, continuava e, anzi, peggiorava: non riuscivo più a mangiare nulla e qualsiasi cosa ingerissi mi faceva correre in bagno, finché non finii per passare le mie giornate a dormire con la febbre che non mi lasciava mai. I miei genitori a quel punto, stanchi di vedermi così, mi portarono in un’altra struttura, a Sassari e fu là che, dopo un mese di ricovero, in cui mi alimentavano esclusivamente con un particolare latte, si trovarono di fronte a un bivio, Morbo di Crohn o rettocolite ulcerosa?

Da lì fui dunque mandata all’Ospedale di Roma, Bambin Gesù. I ricordi che ho sono vaghi e sfocati, però anche là i dottori non erano sicuri di quale delle due patologie si trattasse. A quel punto i miei genitori, su consiglio di alcuni amici, mi portarono al Gaslini di Genova, che diventò la mia seconda casa.

La prima volta rimasi ricoverata un mese: là mi rigirarono come un calzino, facendomi fare visite su visite, alcune anche non troppo piacevoli e invasive e tutt’ora molti di quei momenti sono impressi nella mia mente. Alla fine di questo mese però si definì il quadro clinico e la diagnosi fu Morbo di Crohn.

I miei genitori erano molto spaventati perché non era una malattia ancora molto conosciuta. Venne spiegato loro cosa fosse e come dovevano agire, seguiti da personale medico specializzato e super amorevole (cosa fondamentale per dei bambini che non sono là per volontà loro). Iniziarono a bombardarmi di cortisone, provai immunosoppressori, cure sperimentali, ma solo il cortisone aveva effetto su di me. Così passarono gli anni tra continui ricoveri e dimissioni, tra prelievi e cadute in bici, tra colonscopie e compiti in classe. I ricordi, però, non sono solo brutti: rammento ancora alcuni dei bambini che giocavano con me nella sala giochi e che passavano i pomeriggi a guardare i pokemon. Ricordo le grandi camerate in cui ridevamo la notte, in cui tra una febbre e l’altra giocavamo a carte, con le nostre mamme sempre accanto a noi. La vita continuava come sempre, tra alti e bassi passarono 13 anni, non dimenticherò mai quel giorno. Mi chiamarono come tutte le volte per la colonscopia: ero l’ultima a farla. Mi addormentarono e al mio risveglio tutto sembrava normale: gli infermieri e i dottori erano nella mia stanza a farmi cantare e ridere, perché questo era l’effetto dell’anestesia su di me, ma i problemi iniziarono quando finì: i dolori furono lancinanti, le gambe pesanti e capii che non era un dolore normale, ma mi continuarono a dire di stare tranquilla, che era solo l’aria della visita, ma io sapevo che non era quello: troppe volte avevo sentito quel dolore e non era forte come il giorno. Si decisero a farmi fare una lastra, da cui non risultò nulla e a quel punto mi somministrarono un antidolorifico e passai la notte tranquilla. Al mio risveglio la mattina i dolori erano lancinanti e iniziai a rimettere, finché non arrivò il primario di gastroenterologia che capì subito la situazione e dopo qualche controllo tornò dopo nemmeno cinque minuti, con tre chirurghi, che mi spiegarono la situazione, essendo maggiorenne: perforazione intestinale.

Mi misero immediatamente in una barella e mi fecero una tac , che confermò la teoria. Ricordo ancora la paura che provai quando mi dissero: “Dobbiamo correre in sala operatoria”. Protestai e mi fu detto: “Decidi: o vivere o morire”.

A quel punto capii che la situazione era davvero grave e non mi rifiutai più. Mi fecero firmare i vari consensi e mi portarono in sala operatoria. Il tempo per capire cosa stesse succedendo non c è praticamente stato e non mi fu spiegato come sarebbe cambiata la mia vita. Dopo 7 ore di intervento uscii dalla sala operatoria e ricordo che al mio risveglio non capivo nulla e non avevo la forza di parlare, né di ascoltare. Ciò che vedevo era solo ciò che mi si presentava dritto negli occhi, tutto intorno era sfocato. Dal giorno dopo iniziai piano piano a riprendermi. Mi venne spiegato cosa mi avevano fatto e cosa fosse quella sacca che avevo sulla pancia. L’inizio è stato difficile, non lo volevo ne vedere ne toccare, non capivo perché quel pezzo di intestino dovesse stare fuori dalla mia pancia. Mia mamma inizialmente mi faceva tutto, io stavo a guardare. Piano piano ripresi a mangiare e tutto procedeva bene, finché il quinto giorno iniziò uno strano mal di pancia e senso di nausea. L’infermiera mi chiese come mai mi stessi lamentando proprio in quel momento che avevo una persona che mi faceva visita, presupponendo che stessi facendo la vittima. Ma così non era e, dopo avermi visitato, la dottoressa mi chiese da quanto tempo avevo bevuto. Mi venne detto di non bere più perché dovevo essere immediatamente rioperata. Solita storia: paura perché non capivo cosa stesse succedendo, cosa avevo fatto per meritarmi tutto questo. Non avevo drenaggi e all’interno mi si era formato tutto il liquido che doveva uscire tramite quelli. Dimenticanza che mi costò cara: l’intervento per eliminare il liquido durò cinque ore; al mio risveglio stavo malissimo, la febbre era alta e non si decideva a scendere, nemmeno con la tachipirina. Iniziarono, quindi, con la novalgina in vena e solo con quella mi scendeva, ma non più di tre ore.

Ho passato circa un mese, se non ricordo male, con la febbre, senza voler vedere né la luce della finestra, né sentire voci, completamente al buio. Stavo troppo male, ero debilitata, la febbre mi stava distruggendo e ciò che volevo era solo dormire. La mia famiglia a turno veniva dalla Sardegna, ma io avevo solo pochi momenti in cui riuscivo a parlare con loro, i pochi momenti in cui la febbre mi lasciava in pace. Mi fecero “bombe di antibiotici”, che però sembravano non fare effetto e le parole dell’infettivologo, che passava tutti i giorni a controllare le mie analisi, che puntualmente mi venivano fatte alle 7 del mattino, tutti i giorni, erano sempre le stesse, non ci sono miglioramenti. Una notte, ricordo come fosse ieri, sentii del caldo nella pancia e chiamai mia mamma dicendole che mi si era staccata la sacca e che sentivo caldo nella pancia. Quando accese la luce quello che avevamo di fronte ci spaventò, sangue in tutta la pancia e nel letto. Arrivarono subito le infermiere che tamponarono con le garze. Fu l’unica volta da quando mi ero ammalata che vidi mia mamma piangere. I giorni seguenti trascorrevano come sempre, finché un giorno, mentre mi controllavano la ferita, si resero conto che le graffette non avevano retto e il giorno seguente fui di nuovo portata in sala operatoria e di nuovo autografo e nanna. Al mio risveglio mi avevano ricucita alla perfezione, ma nemmeno i punti a filo ressero, al che si arresero e fecero crescere la carne da sola, facendomi degli impacchi col plasma dato dal sangue di donatori. Fui seguita da vari medici, psicologi e chirurghi: piano piano iniziai a riprendermi, finche ricominciai a mangiare. Passò Pasqua e mi regalarono tantissime uova di Pasqua, ero trattata come una regina dalle infermiere e coccolata come una figlia. Il 14 aprile mi portarono in sala operatoria perché nonostante avessi ripreso a mangiare da sola, continuavo a pesare 36 chili; mi fu quindi messo un catetere venoso da cui mi avrebbero alimentata. In sala operatoria l’anestesista, leggendo la mia data di nascita mi disse: “Domani è il tuo compleanno Silvia, a mezzanotte veniamo a farti gli auguri”. La notte, a mezzanotte, (mentre io avevo almeno quattro ore di sonno) sentii la canzone “Tanti auguri a te”: erano venute davvero, con una bottiglia di spumante e con tutto l’affetto che avevano. Non ci potevo credere, erano matte e adorabili. Man mano che passava il tempo, prendevo peso e miglioravo, finché mi rimisero in piedi dopo due mesi. La riabilitazione fu lenta, piccoli passetti poco alla volta.

Ricordo ancora quando mia mamma mi portò in corridoio con la sedia a rotelle e mi portò accanto alla finestra e li vidi una stella, mi misi a piangere e capii quanto quelle piccole cose contavano. Vennero a trovarmi i miei amici di scuola e i miei fratelli e la mia camera era diventato un bazar, tra palloncini, pupazzi e regali. Fui dimessa il 5 maggio e quando tornai a casa la ripresa fu in salita ma piano piano con l’amore della famiglia e amici mi ripresi.

Iniziai a fare amicizia con la sacca e a gestirla da sola. Non l’ho più vissuta come un problema nel momento in cui ho capito che grazie a “lei” non stavo più prendendo medicine e stavo bene. Nel 2010 fui operata a Bologna al Sant’Orsola e mi venne fatta la pouch. Nel 2011 mi ricanalizzarono, ma a quel punto fu il retto ad essere colpito dalla malattia e, nel 2012, mi fu confezionata una ileostomia definitiva.

Non l’ho presa male: la mia vita andava avanti lo stesso e, anzi, la mia qualità di vita era migliorata. Non dovevo più correre a cercare un bagno se uscivo, non dovevo più avere paura di mangiare qualcosa. Potevo fare e posso fare tutto, ho un fidanzato meraviglioso, che mi aiuta a cambiarmi e non me lo ha mai fatto vivere come un problema. Grazie a lui ho capito che non sono diversa da nessuno. Ciò che ho sempre pensato è che io una possibilità di stare bene la ho, mentre c’è chi, purtroppo, seconde possibilità non ne ha, quindi non mi posso lamentare, anzi devo ringraziare che ci sia un rimedio per stare bene. Penso che abbia iniziato a ragionare così dopo essere stata al Gaslini e aver visto bambini con malattie di cui nemmeno sapevo l’esistenza. Io posso camminare, mangiare da sola. Ho i miei problemi, dovuti alla patologia, ma la stomia non deve essere vissuta come un problema. Si può andare in bici, al mare, fare tutto. A 27 anni posso dire con certezza che spero col cuore che vada sempre bene con la stomia e sarò io la prima a non volerla togliere, se è ciò che può salvarmi. Se sono arrivata a pensare queste cose è grazie agii stupendi medici che ho incontrato, da quelli del Gaslini, ad Alghero Lidia, a Bologna ai miei Gionchetti e Poggioli e alla mia adorabile stomaterapista MariaTeresa Deledda.

Ma il più lo devo all’ amore della mia famiglia: di mia mamma, che non mi ha mai e dico mai lasciata sola, che ha vissuto con me veramente ogni istante della mia vita e che nemmeno tutto l’oro del mondo può ripagare; dei miei fratelli, che mi hanno sempre coccolata; e di mio padre che mi ha sempre detto: “Dallo a me quello che hai tu!” e che ora mi protegge da lassù. E infine, ma non per ultimo, al mio fidanzato, che non me l’ha mai fatta vivere come un problema, anzi: scherzandoci su, se magari mi sporco, perché purtroppo capita anche quello. Alle mie amiche e parenti che mi hanno sempre aiutata a passare i momenti brutti. E a me che sono l’unica che si sosterrà sempre e che dovrà affrontare gli ostacoli che si presenteranno.

Registrati per conoscere tutti i servizi e i prodotti a disposizione ed essere aggiornato sulle ultime novità
Iscriviti ora al Programma me+ × Chiudi