Arrivato al Pronto Soccorso dell’ Ospedale Civile S. Maria Goretti di Latina il 14 novembre 2015 per una violenta ritenzione urinaria causata dalla prostata ingrossata da vecchia data; catetere malamente applicato con più di qualche complicazione; decisione concordata col chirurgo per l’operazione, ricoverato, dopo due giorni di degenza al Pronto Soccorso nel reparto di Urologia, camerata cinque letti con anziano signore che andava ripetutamente al bagno comune perdendo le feci nel tragitto letto-bagno; rinviata l’operazione a causa di urine e feci sanguinolente; temporanea dimissione in attesa dell’operazione eseguita il 14 dicembre, dimissione a ridosso delle festività natalizie. Lo stato di salute a seguire è andato gradualmente complicandosi fino ad un ricovero d’urgenza il 30 dicembre, stato comatoso, reparto di Infettivologia –presumibilmente o evidentemente precedentemente non consultato- dove, purtroppo, la terapia d’urto praticata per debellare l’infezione contratta da clostridium difficile non poté essere efficace. Operato d’urgenza tra 31.XII.15 – 01.01.2016 con inevitabile asportazione pressoché totale del colon (residuo pari a cm 3-4). Camera di rianimazione per una buona settimana, alcuni giorni nel reparto Chirurgia, finalmente, “tornato alla vita”, soprattutto nel detto reparto di Infettivologia indi successivamente dimesso. Siamo ai mesi di gennaio-febbraio, si manifestano nuove complicazioni con andate e ritorni al/dal pronto soccorso e degenza presso lo stesso per due/tre notti, prolasso della stomia, dimissioni, retroflessione della stomia, conati di vomito e astinenza da cibo per una settimana, blocco intestinale; intervento mediante siringone (infermiere a domicilio) senza risultato, blocco totale; nella nottata, violento vomito di escrementi, al mattino ulteriore ricovero, operazione d’urgenza cui seguì, a breve distanza di giorni, un ulteriore intervento causato da principio di setticemia. In tutto, quattro interventi nell’arco di tre mesi. Dopo una breve degenza nel reparto di Chirurgia, “ritorno alla vita” nel reparto di Infettivologia dove, a voler fare della ironia ma con sollievo e gratitudine, ho pensato a “Oh les beaux jours” di S. Beckett! In quel reparto sono effettivamente “rinato”. Stavo imparando a convivere con le sacche, in ospedale in misura più agevole in quanto supportato ed assistito direi “amorevolmente” sia in Chirurgia, dagli infermieri, in particolare dagli “esperti” in materia Giacomo Ferrarelli e Antonella Rizzo, encomiabili, sia ad Infettivologia, primario, medici, infermieri, tirocinanti d’eccellenza. Dopo una terapia (aggiunta) di riabilitazione, dimissioni definitive il 21 marzo. Assistenza domiciliare per alcune settimane, sacche e terapia riabilitativa. Con le sacche sono cominciati i problemi. In ospedale avevo sperimentato due o tre tipologie con risultati non del tutto soddisfacenti ma, si ribadisce, accettabili visto lo stato protetto. A casa, invece, più volte, specie in notturna, mi ritrovavo a combattere a causa del distaccamento della placca del tipo “gommoso”, comunque rigido, che vista la posizione della stomia –come mi fu detto a seguito di alcuni consulti, a Roma- spostata un po’ troppo verso l’inguine (per cause di forza/emergenza maggiore?), dunque, con inevitabile dislivello circa la regolarità della superficie dell’addome. A dire il vero, a Latina, la stessa Antonella Rizzo aveva tentato più volte di risolvere il problema di per sé non risolvibile tentando con diverse tipologie di sacche. Parlando con lei, andai a Roma, Umberto I, dal prof. La Torre il quale mi prescrisse un tipo di placca convessa ma sempre rigida, pertanto, neppure l’apposita pasta adesiva riuscì a garantirne l’adesione alla cute. Successivamente, interpellai il Prof. Pacelli, al Gemelli. Purtroppo, le sacche mi rendevano la vita sempre più difficile per essere pressoché ingestibili, per costringermi ad alzarmi ripetutamente durante la notte. Ancora i coniugi Ferrarelli, precisamente Antonella Rizzo mi diede la dritta per il tramite di Barbara Borsari (figlia di uno dei miei più cari e stimati amici, conosciuta fin “da bambina”). Entrambe insistettero perché mi rivolgessi alla straordinaria (lo avrei scoperto a breve) infermiera specializzata Elisabetta Di Palma, al San Camillo in Roma. Confesso che ero stanco e scoraggiato, vivevo oramai ossessionato dalla “merda” sulla quale, da appassionato e frequentatore di teatro, ironizzavo precisando che è il motto degli attori prima che inizi la rappresentazione! Dunque, “merda” come in teatro, niente a che vedere con il dispregiativo ed avvilente “uomo di merda”. Come, in realtà, avvertivo di sentirmi. Sfiduciato, opponevo resistenza. Un bel giorno del luglio 2016, credo, mio cognato mi prese di peso e mi accompagnò a Roma, al San Camillo, dove incontrai e conobbi colei che per me è stata e rimarrà Santa Elisabetta della quale, peraltro, mi aveva parlato molto bene anche il Prof. Tersigni comune amico mio e di mio fratello. Mi controllò accuratamente, si allontanò un momento, tornò con un’altra tipologia di sacca, della ConvaTec, aperta. Per la prima volta notai che l’attaccatura della placca, pure convessa, era una garza-cerotto adesivo, combaciante ed adattabile alla irregolarità del tessuto-addome. Mi fornì alcuni prodotti collaterali, uscii risollevato non poco ma guardingo, in attesa di sperimentare. Dopo averne provate di ogni colore, stavolta era la placca giusta. Tornai “in ginocchio” – grato - dalla Elisabetta, per qualche aggiustamento (anello modellabile da applicare sulla periferia della stomia o, direttamente, sulla placca); dopo le prime prove, tornato dalla medesima, le chiesi se non fosse meglio ricorrere alla pasta adesiva: fu d’accordo e così è stato. Allo stato attuale, salvo alcuni incidenti di percorso, mi pare di poter svolgere serenamente buona parte delle mie mansioni ed attività, soprattutto artistico-intellettuali e come uomo pubblico e come studioso ed esperto di teatro unitamente a quelle pratiche, queste con i dovuti limiti ed accorgimenti. Già da qualche anno in pensione –preside per circa venti anni al Liceo Classico di Latina-, ho proseguito nella mia variegata attività di docente-consulente (occasionale), prevalentemente di critico (cinema, teatro, musica, arte), opinionista (cronaca di costume e politica), saltuariamente, su alcuni giornali locali, con regolare frequenza, su un giornale online. Impegnato spesso in conferenze, presentazioni di libri, interviste, dibattiti e affini. Componente di un gruppo di studio-lavoro (esterno) per la questione culturale della città nell’ambito delle proposte progettuali del Comune di Latina. Sostenitore ufficiale della LILT di Latina e provincia. Candidato per il PD –lista indipendente - alle ultime elezioni politiche per un contributo al fatto culturale della città, purtroppo, vanificato. Studioso di Brecht, brechtiano convinto ed incallito da una vita, dopo la brusca interruzione di ben cinque mesi, temevo di dover rinunciare all’invito alla prima della nuova edizione de “L’Opera da tre soldi” al Piccolo di Milano, da mesi annunciata per il 19 aprile, a un passo dalla mia uscita dall’ospedale. Ho assillato medici amici e non chiedendo loro se fossi stato in grado per quella data, più di qualcuno mi rassicurava magari, pensavo, con il beneficio di inventario. Armato di ogni corredo strumentale ed accessorio bastone compreso, accompagnato da mia moglie, a dire il vero perplessa, azzardai (in treno) confortato dal fatto di potere fare affidamento sull’ospitalità in casa di amici fraterni di famiglia. Durata dello spettacolo, tre ore e mezzo (inizio 19.30), sempre all’erta per la sacca, una sola volta in bagno (forse due), andò tutto benissimo ancor più per aver salutato amici carissimi del Piccolo da molti anni, vecchi e più recenti che, come tutta la città di Latina, nei giorni del coma e pericolo di vita furono tutti in forte apprensione e mobilitati per il mio caso. Rivedere un’edizione diversa dalla celebre edizione di Strehler (1973-76) in uno stato fisico a dir poco da quattro soldi (45 kg), mi pareva impossibile. Forte del processo/metodo di straniamento (brechtiano), ho “indicato” il personaggio uscendo cioè da me stesso, realizzando di essere un altro da me. Insomma, di avere in-saccato (!) la paura o l’incertezza. Diversamente, una sera, uscito dal teatro Argentina (pomeridiana), avendo rincorso, imprudentemente, il tram in arrivo per Termini, (fermata davanti al teatro), avvertii l’irreparabile. Salito sul treno, di corsa nella toilette, non c’era l’acqua. Dovetti arrangiarmi alla meglio non senza difficoltà. Come Dio volle arrivai a Latina, a casa cominciai l’opera di bonifica: non avevo ancora conosciuto Elisabetta. Parallelamente, inizialmente con fatica, ho ripreso la mia attività in carcere dove da quattro anni curo un laboratorio teatrale con le detenute; ho messo in cantiere un nuovo spettacolo. Loro, le detenute, essendo per lo più partenopee, mi hanno accolto come un miracolato, al grido gioioso di “Maronna”! In corrispondenza dell’“Opera da tre soldi” al Piccolo e col patrocinio di esso, la fine di aprile, nell’ambito della rassegna “Lievito” (Rinascita Civile), mi sono ripresentato in pubblico, nello storico Palazzo M di Latina proponendo una lettura drammaturgica di poesie, liriche e canzoni di Bertolt Brecht, con tre attori professionisti, due musicisti, ideatore, conduttore e presentatore il sopravvissuto oramai stomizzato. Tutto esaurito, grande successo. Chiunque fu positivamente impressionato dalla tenuta della mia persona, ovviamente, de-formata ma incredibilmente non arresa. Avendo imparato ed accettato di convivere con un problema di disabilità che richiede comunque un’osservazione o assistenza ma che, per buona parte dei casi, consente di curvare le proprie esigenze nel senso delle opportunità consentite.
Giorgio Maulucci (classe 1944)